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dario squilloni

GIUSTIZIA E CURA

Aggiornamento: 8 mar 2023




in memoria di

ELENA PULCINI


APUN - Modena 2021



Anzitutto grazie a tutti i presenti, e devo anche ringraziare, davvero sentitamente, l’Associazione APUN (Associazione Psicologica Umanistica e delle Narrazioni) e la dr.ssa Beatrice Balsamo per avermi consentito di intervenire qui oggi, al posto di mia moglie Elena Pulcini, scomparsa pochi mesi fa, e avere così l’occasione di esporre alcune sue riflessioni che, in quanto filosofa sociale, riteneva dovessero contribuire concretamente a “La cura del mondo”, titolo di un suo saggio del 2009. Elena aveva aderito con molto piacere all’invito di partecipare al MENS-A, in quanto mossa fondamentalmente dallo stesso spirito verso un rinnovato umanesimo che, come si legge nel manifesto del convegno, anima chi si adopera per la rinascita di qualità umane quali la responsabilità, la cura, il bene comune e la pace, portate avanti, ed è questa una importante parola chiave, “insieme”.

Quindi mi trovo qui al posto suo, non senza difficoltà e commozione, a cercare di comunicare sinteticamente gli argomenti che Elena Pulcini avrebbe esposto in questo convegno, in particolare, come dice il titolo del suo intervento, le sue riflessioni sul rapporto fra giustizia e cura. Per tentare di farlo devo però riassumere, anche se troppo brevemente, l’evoluzione, negli anni, del suo pensiero. Evoluzione pervenuta, ormai già vent’anni fa, alla presa di coscienza dell’urgenza inderogabile di far fronte ai rischi globali: rischi globali dotati, per la prima volta nella storia dell’umanità, di una portata distruttiva definitiva per l’umanità ed il pianeta stesso. Già vent’anni fa, potremmo dire in tempi ancora non sospetti per la percezione collettiva, Elena dedicava la terza parte del suo libro “Il potere di unire”, edito nel 2003, a “dono, cura e responsabilità appassionata”, cito da lì le parole in chiusura:


“Questa forma di responsabilità (appunto la responsabiltà appassionata), capace di varcare la soglia del privato e di estendersi alle sorti dell’umanità (e dell’intera biosfera), non può non apparire oggi, in un mondo globale e senza confini, attraversato da minacce inedite e da poteri senza controllo, un’imprescindibile e prioritaria risposta di senso.”


In altre parole, il dilagare dei rischi globali, dall’atomica in poi, ha reso evidente agli occhi di tutti la drammatica novità che incombe oggi sull’umanità, prodotta dall’esponenziale sviluppo della scienza e della tecnologia: novità che consiste in una capacità distruttiva di dimensioni inedite, in nostro possesso, in grado di determinare la fine della specie e del pianeta. Questa capacità di distruzione totale adesso esiste, è in mano nostra e ne consegue che il destino del mondo dipende ormai unicamente dalla nostra volontà e dalla nostra responsabilità. Una consapevolezza questa, che non sembra pervenuta a sufficienza alla coscienza del soggetto contemporaneo, nonostante gli anni della guerra fredda, il buco nell’ozono, il riscaldamento globale e, last but not the last, la pandemia. Un soggetto prometeico di hobbesiana memoria, razionale, libero e sovrano, molto presto inflazionatosi nel “prometeo irresistibilmente scatenato”, denunciato da Hans Jonas già negli anni ’80, che domina la scena contemporanea convinto del proprio illimitato potere. E che insiste nel suo verticalismo accelerato, forte dell’illusione di avere tutto sotto controllo.

Un soggetto cui Elena ha dedicato gran parte dei suoi studi, descrivendone le patologie che costellano la sua storia, dalla modernità ad oggi, e le conseguenti mutazioni occorse nella società, soprattutto nel campo delle relazioni umane; studi culminati con la pubblicazione, nel 2001, del suo saggio dal titolo eloquente de “L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale”. Perché uno dei principali mutamenti antropologici causati dal dominio del razionalismo, consiste proprio nella svalutazione dei sentimenti, delle passioni e della sfera emotiva in generale, considerati strumenti inaffidabili e disfunzionali. Rimozione della funzione “sentimento”, direbbe Jung, che ha molto a che fare, secondo Elena Pulcini, con la “cecità” del soggetto sovrano rispetto alla deriva autodistruttiva dei suoi stessi comportamenti razionali, questi sì disfunzionali, perché connotati proprio dalla assoluta mancanza di considerazione delle possibili conseguenze, anche delle conseguenze su se stessi.

Che ogni potere abbia sempre perseguito il proprio interesse e la propria conservazione, magari sulla pelle degli altri, non è certo una novità. Ma il tragico sospetto è che l’individualismo contemporaneo abbia raggiunto un tale grado di chiusura autoreferenziale da sfiorare l’autismo: come altro si può spiegare l’indifferenza, per non dire la negazione, rispetto ai fenomeni che devastano il pianeta con un’accelerazione tale da dissipare ogni speranza in un possibile futuro per chiunque, anche per chi detiene il potere stesso? Qualcosa nell’istinto di autoconservazione dell’umanità sembra essersi guastato, è paradossale: l’essere umano è sopravvissuto per migliaia e migliaia di anni, con la sua fragilità e pochi mezzi a disposizione, allo strapotere della natura, e oggi rischia di non sopravvivere a sé stesso, alla distruzione artificiale da lui stesso creata.


Elena Pulcini segnala con insistenza che è la svalutazione della sfera emotiva, perpetrata dalla modernità in poi, la causa principale del depotenziamento delle capacità obiettive della coscienza: intrappolata nella dicotomia ragione vs passione, la coscienza razionale, confidando solo sul “cogito”, si è scollegata dalle proprie emozioni, considerate destabilizzanti e inaffidabili, senza rendersi conto di generare così una dipendenza compulsiva dai sentimenti rimossi, e perciò regrediti nell’inconscio alla sfera egoico-pulsionale: “L’Io non è padrone in casa propria”, appunto. Freud ci avvertì più di cent’anni fa, avvertimento direi alquanto ignorato.

Infatti, “L’individuo senza passioni”, come Elena Pulcini tiene a precisare, non è affatto un individuo “spassionato”, bensì è un soggetto inflazionato dalle “passioni egoiche”, quali il desiderio acquisitivo illimitato di beni materiali o di prestigo e status sociale, e dalle “passioni tristi”, quali l’invidia, il risentimento. La prima importante conseguenza sulla società di una tale dipendenza regressiva, a partire dal liberalismo della prima modernità, è l’instaurazione di una modalità di relazione con l’altro esclusivamente strumentale, cioè finalizzata unicamente al conseguimento del proprio interesse, che indebolisce fortemente il legame sociale, non più orientato all’interesse comune. E con l’avvento della democrazia nella seconda modernità e dal post-moderno ad oggi, l’individualismo narcisistico regredisce a forme di relazione che peggiorano ulteriormente la situazione sociale. Premetto che le riflessioni che ora leggerò da L’individuo senza passioni, non vanno minimamente intese come svalutazioni antidemocratiche, bensì, sulla scia di Tocqueville, come critica delle patologie sviluppatesi dall’incontro del soggetto individualista e narcisistico col sistema democratico, critica che mantiene inalterata a tutt’oggi, la sua validità. Scrive Elena Pulcini:


Questa forma di narcisismo patologico presuppone non solo la fine di ogni distanza critica dall’esistente e l’abbandono di ogni progetto emancipativo, ma appunto una sorta di diserzione dalla sfera sociale e pubblica fondata, all’origine, sulla perdita del legame emotivo con l’altro. Il narcisismo patologico e la crisi del legame sociale che ne deriva sono dunque da ricondurre ad un’assenza di emotività, ad una perdita di pathos e di tensione relazionale la cui origine non sta, a mio avviso, nella ricerca dell’autenticità, ma nella torsione atomistica ed entropica delle stesse passioni acquisitive.

A tale proposito, la diagnosi critica di questo processo intrinseco è forse la più preziosa intuizione di Tocqueville, che ne mostra l’intimo nesso con l’avvento della democrazia. L’individualismo democratico descritto da Tocqueville è l’effetto di un insieme complesso di fattori costituito da un lato da una sorta di entropizzazione della passione acquisitiva (la “passione del benessere”) che non riesce più a tradursi nell’aperta conflittualità del modello hobbesiano e smithiano, ma implode nelle forme desocializzanti dell’invidia e del risentimento; dall’altro dal conformismo prodotto dalla “passione dell’uguaglianza” che rende gli uomini “simili” senza però unirli, e genera al contrario una dissolvenza della figura dell’altro che sfocia nell’a-patia e nell’indifferenza.

La democrazia, secondo Tocqueville, disfà il legame sociale in quanto provoca un indebolimento delle passioni. Offrendo a tutti un’illimitatezza delle possibilità, essa alimenta, è vero, la passione acquisitiva facendone addirittura il nucleo accentratore della vita emotiva; ma allo stesso tempo, la svuota di ogni slancio progettuale e prometeicamente lungimirante, riducendola ad un edonismo febbrile e mediocre, fatto di desideri fluttuanti e senza oggetto, che assorbe le energie dell’Io veicolandole tutte nell’ansiosa ricerca di un successo inafferrabile e causandone la smobilitazione dalla vita pubblica e sociale. La democrazia inoltre produce somiglianza e omologazione: cioè tendenza dell’individuo a scomparire nella massa, alimentata da un ossessivo desiderio di uguaglianza intollerante di ogni differenza e geloso di ogni forma di distinzione, vale a dire da una passione conformistica capace solo di manifestarsi nelle forme solitarie e “livide” dell’invidia. La democrazia genera una massa indifferenziata di individui irrelati, atomisticamente chiusi nel perseguimento di un benessere mai appagante, caratterizzati dalla debolezza delle passioni e della volontà, estranei gli uni agli altri pur nella generale somiglianza; individui infine disposti a rinunciare, per un bisogno di tutela e di ordine generato dalla propria solitudine e dal deficit di solidarietà, persino alla libertà, ed inclini ad assoggettarsi al dispotismo di un potere apparentemente soft a cui viene delegata ogni scelta e decisione. Tocqueville coglie infatti la configurazione di un potere politico anonimo e pervasivo che penetra insensibilmente nell’interiorità degli individui dirigendone le azioni, orientandone le scelte e indebolendone la volontà, che troverà ampia risonanza nelle riflessioni post-weberiane sul potere; e di cui l’immagine foucaultiana del potere moderno come “governo delle anime” rappresenta la più compiuta e recente espressione.

Atomismo e massificazione, solitudine e conformismo, indipendenza e assoggettamento: l’ambivalenza dell’individuo moderno subisce nell’homo democraticus una radicalizzazione che muta profondamente la forma dell’individualismo; non più aggressivo e conflittuale, ma debole e apatico, indifferente e delegante. In esso è possibile riconoscere la genesi del narcisismo patologico descritto dalla riflessione contemporanea, in cui un illimitato desiderio di autorealizzazione appare come l’effetto speculare di un vuoto emotivo, di una perdita di pathos che chiude l’Io in una logica identitaria responsabile sia dell’indebolimento dell’identità individuale sia della crisi del legame sociale. Allo scenario conflittuale di nemici e rivali, peculiare del modello liberale, subentra lo scenario democratico di atomi irrelati, incapaci persino di riconoscere il loro stesso autentico interesse; al legame puramente strumentale della prima modernità, subentra un’assenza di legame prodotta da una desostanzializzazione della figura dell’altro che trasforma il conflitto in indifferenza. Non si può tuttavia parlare di rottura epocale, né invocare un presunto tradimento del progetto emancipativo della modernità. Il narcisismo scaturisce infatti da una torsione entropica delle stesse passioni acquisitive favorita, come Tocqueville ha perfettamente intuito, dallo stato sociale democratico (cfr. il cap.IV).

L’individualismo narcisista sembra dunque aver definitivamente compromesso la dimensione societaria in quanto rende obsoleta persino la possibilità che l’interesse agisca strumentalmente come risposta normativa. Esso produce semmai, come fenomeno opposto e complementare, il riemergere di passioni “disinteressate” che alimentano un ritorno della comunità in forme, però, prevalentemente regressive e distruttive; come appare nei vari tribalismi e comunitarismi contemporanei (siano essi di origine etnica, religiosa o ideologica) che oppongono l’endogamica e violenta passionalità del cum all’apatia dello sradicamento e dell’omologazione.

Di fronte a questa forbice tra un individualismo narcisista e un comunitarismo regressivo, tra un’assenza di pathos che corrode il legame sociale e un eccesso di pathos che lo ricostruisce in forme distorte ed esclusive, emerge dunque la necessità di ripensare con urgenza le forme dell’essere-in-comune capaci di riattivare la partecipazione alla vita pubblica, la sensibilità al bene collettivo.


Riassumendo: la svalutazione fino alla rimozione, del valore delle emozioni, delle passioni e dei sentimenti, con la conseguente perdita del legame sociale, il disinteresse per la vita pubblica, l’apatia e l’indifferenza, costituiscono valide premesse alla perdita di visione obiettiva della realtà e al diniego che un soggetto contemporaneo scisso in due, da un lato nel soggetto egoistico caratterizzato dalla relazione strumentale, dall’altro nel soggetto altruistico caratterizzato dalla relazione sacrificale, oppone stolidamente alla presa di coscienza della condizione di estremo pericolo che tutta l’umanità sta correndo, potenti inclusi. Perché è questa la novità, inedita nella storia, che dicevamo all’inizio: non c’è più un piano B, non più un’isola felice dove il più furbo, o il più ricco o il più potente può salvarsi, e chi se ne importa degli altri, come finora è stato nel tradizionale comportamento individualista; mors tua vita mea non funziona più, siamo davvero tutti insieme su una stessa barca, piena di falle causate dalle nostre stesse picconate che però non vogliamo smettere di dare. La parabola del “Prometeo irresistibilmente scatenato” è arrivata al capolinea del mondo globalizzato, un mondo dove non c’è più un altrove da colonizzare e depredare; perciò l’individualismo acquisitivo col suo liberalismo selvaggio, incapace di cura, non porta più da nessuna parte.


E’ paradossale che, parallelamente, proprio gli ultimi tre secoli abbiano visto le più grandi conquiste sociali della storia sul piano dei diritti individuali e della giustizia sociale. Anche se, come nota fra gli altri Amartya Sen, l’etica normativa liberale si fonda e si sviluppa sul piano meramente razionale e condivide con l’homo oeconomicus la stessa emarginazione della sfera emotiva e la svalutazione delle passioni e dei sentimenti.

Di conseguenza gli apparati normativi risultano troppo teorici e astratti rispetto ai bisogni reali, e quindi insufficienti da soli a realizzare dei veri cambiamenti. Ad esempio, in un intervento alle conferenze Eranos del 2014, Elena Pulcini, parlando dei diritti delle donne diceva:


La lotta delle donne per le pari opportunità, per avere un accesso paritario alla sfera professionale e per vedere riconosciuto il loro ruolo nella sfera pubblica sono da tempo, come ben sappiamo, la legittima risposta alla condizione di subalternità e di esclusione. (Però) La conquista della dignità e dei diritti nella sfera pubblica non equivale, necessariamente, alla trasformazione dell’immaginario e della sfera emotiva. Rappresenta indubbiamente un decisivo passo avanti rispetto alla visione rousseauiana, perché riconosce alle donne una chiara autonomia e un inedito statuto giuridico. Ma fermarsi alla rivendicazione dei diritti rischia di sottovalutare forme più invisibili e sottili di dominio e di disuguaglianza che si impongono attraverso i sentimenti e l’immaginario, e che persistono a dispetto della conquista di diritti o posizioni di rango sul piano professionale e pubblico.

Ne troviamo conferma nell’esistenza di realtà contraddittorie dalle quali emerge la discrasia tra pubblico e privato. Può accadere per esempio che una donna abbia conquistato posizioni di prestigio nella sfera professionale e persino ruoli di potere nella sfera pubblica, ma continui a subire forme di oppressione nella sfera privata dove non è in grado di affermare i propri diritti poiché subisce, in nome dell’amore e del legame, il ricatto emotivo del partner. Basti pensare a forme estreme come il recente radicalizzarsi della violenza maschile sulle donne e alla preoccupante diffusione di quel fenomeno che, con un neologismo, è stato definito femminicidio, fenomeno che possiamo almeno in parte ricondurre ad un’idea distorta e possessiva di amore; oppure al rifiuto da parte maschile di accettare una giusta divisione del lavoro nella sfera familare, a causa della persistenza dell’immagine oblativa e accudente delle donne.


Lo stesso potremmo dire per la condizione esistenziale reale dei neri negli Stati Uniti d’America e di tutte le altre minoranze del pianeta.

Quindi la giustizia normativa, per essere davvero efficace, deve ritrovare le proprie fondamenta emotive; questo significa andare oltre i limiti delle teorie liberali della giustizia per ritrovare le passioni che ispirano la domanda di giustizia. Dice ancora Elena nell’introduzione al suo ultimo saggio dal titolo appunto “Tra cura e giustizia”:


Prendere sul serio le passioni della giustizia significa anche mutare, ancora più radicalmente, l’ottica con la quale si affronta il problema; significa rinunciare, come propone Amartya Sen, ad un modello ideale e perfetto di giustizia, come quello che ispira il paradigma rawlsiano, e partire piuttosto dalle rivendicazioni concrete di individui e gruppi che scaturiscono dalla percezione dell’ingiustizia. Bisogna in altri termini partire dall’ingiustizia e dal nostro desiderio di combatterla, mobilitando sentimenti, come l’umanità e la generosità, la rettitudine e l’indignazione che ci caratterizzano in quanto esseri umani.

E se ciò vale per coloro che assistono all’ingiustiza, vale ancor più per coloro che la subiscono in prima persona; perchè è da qui che trae prevalentemente impulso la domanda di giustizia. L’“esperienza dell’ingiustizia”, come la definisce efficacemente Emmanuel Renault[1], è infatti ciò da cui hanno origine, attraverso la condivisione di un “sentimento di ingiustizia” da parte delle vittime, le rivendicazioni e le lotte dei vari movimenti sociali, nelle quali possiamo riconoscere un modello normativo di società alternativo a quello esistente. Si pensi oggi, come accennavo sopra, ai movimenti di rivolta che hanno investito, inaspettatamente, il mondo arabo di legittime rivendicazioni democratiche, tanto da poter parlare di una “primavera araba”; o al movimento globale degli indignados che, a partire dalla Spagna si è esteso all’intero Occidente, e ai vari occupy che si moltiplicano nel pianeta; alle inedite rivendicazioni gender oriented come quella del MeToo e delle associazioni LGTB, fino alla rabbia dei gilets jaunes che, pur con le loro innegabili ambivalenze, sono portatori di nuove istanze emancipative.


Umanità, generosità, rettitudine e indignazione, persino l’ira, in quanto sentimenti, vale a dire passioni passioni eticamente orientate, e in più sentimenti sociali, cioè orientati con e per l’altro da sè, dimostrano la falsificazione dell’identità del soggetto operata dall’immagine hobbesiana di un individuo mosso essenzialmente da passioni egoistiche, immagine unilaterale e parziale che tuttavia si è imposta come fosse l’unica vera identità dell’essere umano, costringendo le relazioni sociali a trovare una precaria stabilità solo ricorrendo alla contrattualistica. Negando, in questo modo, che gli individui siano mossi anche, se non soprattutto, da una naturale tendenza al legame sociale che trova nella disposizione alla cura e nelle passioni ad essa correlate un movente dell’agire umano almeno altrettanto fondato.


Espunta dalla sfera pubblica e relegata nel privato, assieme al femminile cui è stata totalmente delegata, anche la disposizione alla cura, non diversamente dal paradigma della giustizia, deve però recuperare le sue qualità emotive, per sottrarsi all’ambito oblativo, altruistico e sacrificale che la caratterizza come alter-ego del soggetto acquisitivo, cioè ridotta e costretta ad una funzione assistenziale, vanamente compensatoria dell’utilitarismo relazionale imperante.

Qualità emotive recuperabili a partire dal recupero dell’empatia, funzione psichica oggi fortunatamente rivalutata, dai neuroni specchio in poi, per l’innegabile valore adattativo, cioè per la capacità di creare legàmi relazionali e interazioni con l’altro, seppur neutre, meramente percettive, cioè non ancora eticamente connotate ed orientate, come le passioni e i sentimenti.

L’empatia consente di sentire l’altro, appunto di mettersi nei panni dell’altro. E se la percezione empatica dell’ingiustizia subita dall’altro fa sorgere in chi la partecipa sentimenti come l’indignazione e l’ira, la percezione della fragilità e della sofferenza altrui risveglia in ciascuno la percezione della propria vulnerabilità e la coscienza di una condizione originaria di reciproca dipendenza. Siamo per l’altro perché siamo con l’altro, perché esistiamo a partire dall’altro.

Dice ancora Elena Pulcini:

Pag. 12


Si tratta quindi, come dicevamo all’inizio, di ritrovare e reintegrare proprio quei legàmi e valori relazionali che soli hanno consentito all’umanità di sopravvivere nei millenni della sua fragilità; e la cui rimozione, operata dall’individualismo acquisitivo dell’homo oeconomicus, depotenzia di fatto l’istinto di autoconservazione ed espone il mondo vivente alla perdita del futuro. Una giustizia e una cura appassionate e collaboranti, possono diventare i veri antidoti alle passioni egoiche e tristi che spingono oggi l’umanità in una deriva autodistruttiva.

Ed ancora, per concludere:

Pag 13.

[1] Renault, L’expérience de l’injustice



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